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Non si può morire così...
Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni. Il 21 luglio 2009 andava in giro in bicicletta quando è stato fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella.

Questo blog nasce dalla volontà della famiglia di ottenere chiarezza su quel che è successo a Stefano e per chiedere che venga fatta giustizia.



ASSEMBLEA PUBBLICA TUTTI I MARTEDI' DALLE 20.00 ALLA SEDE DELL'ASSOCIAZIONE "STEFANO FRAPPORTI" IN VIA CAMPAGNOLE 22.

giovedì 30 luglio 2009

Carceri sature di uomini soli

Stefano Frapporti, artigiano non ancora cinquantenne di Isera, si toglie la vita nella sua cella a poche ore dall'arresto, in circostanze ancora poco chiare che un'inchiesta dovrà appurare. Una storia tragica che apre le porte su una realtà poco conosciuta: il suicidio nelle carceri.
Cosa è davvero successo? "Non lo sapremo mai" dichiara il padre. Le modalità ancora poco chiare su come è avvenuto l'arresto e la successiva perquisizione, il vuoto di informazione che ha patito la famiglia informata a 12 ore dal decesso, sono fatti che inquietano. Non conoscevamo Stefano Frapporti da Isera, artigiano, incensurato, amato dagli amici e descritto come un buono e un onesto. Ma vogliamo a nostro modo ricordarlo con una riflessione sulla drammatica emergenza dei suicidi in carcere.
Il giornale " Ristretti Orizzonti" un periodico di informazione e cultura carceraria, ha organizzato nel mese di aprile, una conferenza presso il penitenziario di Padova " Due Palazzi" dove, fra molti argomenti, è stata messa in rilievo anche questa situazione drammatica.
I dati forniti dal giornale, ma raccolti dal Dossier Morire di carcere, sono sconcertanti: nel solo mese di marzo 2009 ben 10 detenuti si sono tolti la vita; in media, un suicidio ogni tre giorni. Il primo trimestre dell'anno, fornisce un totale di 19 casi, uno in più rispetto all'anno 2005.
Esiste quindi, una relazione evidente fra il grado di affollamento nelle carceri e i casi di morte per suicidio. Ma quali motivazioni spingono i carcerati a questo gesto estremo?
Sempre secondo i dati raccolti dalla redazione di " Ristretti", spicca nettamente la mancanza cronica di psicologi ed educatori deputati al "trattamento" dei detenuti, che ne determina uno stato di abbandono e solitudine.
La totale privazione di stimoli positivi nega la speranza ai carcerati, specialmente ai giovani che giungono in carcere per la prima volta; anche lo spazio angusto e le giornate eterne e ripetitive, sono un incentivo al suicidio. La maggior parte dei detenuti non ha più contatti con il mondo esterno, con i familiari, con gli amici; la perdita della libertà e degli affetti, oltre alla perdita di obiettivi e di prospettive future minano anche quel residuo di umanità rimasto loro.
Il numero ridotto di personale specializzato al recupero della persona, li porta a non potersi aggrappare neppure a quella piccola speranza di dialogo: la solitudine diventa la loro unica compagna. Sono situazioni in cui il fermarsi di fronte alla " colpa ", allontana anche dai diritti umani; ne è prova il fatto che un mancato suicidio implica un richiamo disciplinare invece che un aiuto.
Chi non riesce ad uccidersi è destinato a scontare anche questo. Le testimonianze di detenuti estradati in Italia da alcuni penitenziari esteri, dimostrano con in altri Paesi la situazione sia diversa; in Francia, ad esempio, ai giovani carcerati viene data la possibilità di lavorare e di studiare la lingua ufficiale per aiutare il reinserimento. L'autosufficienza economica li spinge a migliorarsi. Perché questo manca nella maggior parte delle strutture italiane?
Stefano Frapporti si è ucciso dopo sei ore di carcere e la sua morte riapre la questione anche del sovraffollamento, che non si limita solo a Rovereto, ma ha radici più vaste e profonde, che toccano l'individuo, la dignità personale ed i diritti umani. E ci lasciano il vuoto di tante domande senza risposta dentro un buco di 6 ore che Stefano ha vissuto nel dramma più profondo. Lasciano una domanda: cosa è davvero successo in quelle sei tragiche ore ad una persona fino a poco prima incensurata, fermata per aver passato in bicicletta col semaforo rosso?

di Angela Paganini

mercoledì 29 luglio 2009

Suicidio al carcere di Rovereto

Parte l'inchiesta, in città malumore e disordini

I familiari dell’artigiano di 48 anni Stefano Frapporti che si è impiccato la settimana scorsa nel carcere di Rovereto, in provincia di Trento, chiedono, tramite un legale, di fare luce sulla tragedia. L’uomo era finito in carcere dopo essere stato trovato in possesso di hashish e si era suicidato poche ore dopo l’arresto. Sul caso la procura ha aperto un fascicolo.
Sui quotidiani trentini appaiono alcune ipotesi e tra queste una ricostruzione nella quale si spiega che Stefano Frapporti, martedì scorso, era stato fermato da una pattuglia di carabinieri in borghese, per una manovra errata, mentre andava in bicicletta. I militari avevano deciso, forse perché gli avevano trovato dell’hashish, di perquisire la sua abitazione trovando un quantitativo di hashish superiore al consentito per uso personale. A questo punto l’uomo è stato arrestato, dapprima condotto in caserma e poi al carcere di Rovereto dove gli è stata anche negata la possibilità di telefonare alla sorella che avrebbe potuto tranquillizzarlo. Circa due ore dopo si è tolto la vita con il cordoncino della tuta da ginnastica che indossava.

Gli amici hanno scritto una lettera agli organi di stampa con alcune riflessioni che riportiamo:
“Siamo gli amici di Stefano, non vogliamo discutere o fare polemica, per il fatto che Stefano sia stato arrestato e mandato in carcere per la prima volta a 48 anni per possesso di hashish. Vogliamo solo puntualizzare il modo con cui questo è accaduto perché in parte, ma sicuramente, ha influenzato quello che è accaduto in seguito. È il dolore, e non la rabbia, che ci porta a dire queste cose, e il senso del giusto: perché se può essere "giusto" che una persona finisca in carcere per possesso di sostanze stupefacenti od altro, è ancora più giusto che i tutori dell'ordine abbiano, e mantengano sempre, un atteggiamento consono alla divisa che portano ed a quello che è stato loro insegnato. Stefano è stato fermato sulla sua bicicletta per una manovra errata. Quello che è successo dentro, purtroppo resterà per sempre un segreto ma, per chi ha la coscienza a posto, per quanto dura ed inconcepibile possa essere, ce la fa ad andare avanti. Noi vogliamo solo far capire che, in una situazione così, anche la persona più tranquilla, perché incensurata, che sarebbe probabilmente stata rilasciata in pochissimo tempo, viene presa dal panico, dal terrore e, diciamolo pure, dalla vergogna, dai sensi di colpa perché, dopo essere stato trattato come il peggiore dei delinquenti, chiuso in una stanza, una persona di grande bontà come Stefano, bravissimo nel suo lavoro, sempre corretto con tutti, un uomo al quale viene strappata la sua dignità e, usiamola pure questa parola, il suo onore, di colpo si sente solo, denudato e svergognato e, per certe rare persone, che hanno un cuore come Stefano, questa è la fine. La morte per lui non è arrivata con il suicidio; gli è stato negato perfino di potere telefonare a sua sorella che per lui era come una madre. Si può morire anche così, per una telefonata negata. Chi è senza peccato scagli la prima pietra e noi non la scagliamo, ma, chi di noi ha dei figli adolescenti, la cosiddetta età critica, dormirà sicuramente meno tranquillo, sapendo che il proprio figlio o figlia potrebbe essere trattato allo stesso modo di Stefano. "Passa un minuto, oppure anni, ma prima o poi la vita risponde (A. Baricco)". Questa è la frase, l'augurio che noi, amici di Stefano, rivolgiamo a lui ed ai sui cari, spaccati dal dolore, dai perché e dai percome. La vita - conclude la lettera - risponde sempre e noi vi saremo sempre vicini, per ricordarcelo nei durissimi momenti di sconforto e, siccome Stefano sarà sempre nei nostri cuori, la vita ha già vinto”.

Da L’Adige inoltre viene raccontato come il carcere di Rovereto è «sotto osservazione» da tempo. Il rapporto sulle strutture penitenziarie italiane redatto dell'associazione Antigone, indicava già nel rapporto del 1995 i punti critici: grave sovraffollamento; nelle sezioni maschili, i detenuti sono in 4 in celle singole di 9 metri quadrati, 6-7 nelle celle più grandi.
Nel 2005 i detenuti erano 99, per una capienza regolamentare di 28 e "tollerabile" di 50». Per l'Osservatorio «il carcere di Rovereto è qualificato per l'accoglienza dei "sex offender", cioè di detenuti condannati per reati a sfondo sessuale, che nelle altre carceri vivono in sezioni o celle separate e qui sono circa il 40 per cento dei detenuti». Nella statistica, anche i suicidi: negli ultimi 5 anni c'era stato un solo caso, di un detenuto che doveva scontare tre mesi. Fra le critiche: «Manca un progetto terapeutico complessivo per le persone con disagio psichico. La riduzione dei finanziamenti governativi ha avuto conseguenze negative sulle strutture (adeguamento, manutenzione ecc), sul servizio sanitario (riduzione delle ore della guardia medica). Si segnala un aumento di sensibilità rispetto ai problemi del carcere da parte del Comune di Rovereto, anche su impulso del DAP, con la costituzione di un tavolo di coordinamento tra amministrazione e realtà territoriali». Edificio austro-ungarico, ristrutturato nel 1997 (intonaci, impianto elettrico, misure antincendio) soffre però di «spazi non adeguati, sono scarsi e angusti; le attività che prevedono grandi spazi o uso di attrezzature ingombranti non possono essere realizzate. Ad ogni piano c'è una cella per non fumatori. Ci sono due aree verdi inutilizzate».

Infine viene riportato che nel pomeriggio di ieri un gruppo di anarchici in solidarietà alla famiglia ha protestato nelle strade di Rovereto bloccando il traffico e - per una decina di minuti - la stazione dei treni.

martedì 28 luglio 2009

Si è impiccato col laccio della tuta

Stefano Frapporti non si è impiccato con le lenzuola della cella, ma con la stringa dei pantaloni della tuta che indossava martedì sera. Non ha, cioè, utilizzato in maniera impropria le dotazioni del carcere, ma ha introdotto lui stesso lo strumento con il quale si è ucciso. L’agghiacciante dettaglio fa molta differenza, nell’indagine aperta dal sostituto procuratore Fabrizio De Angelis sul suicidio di una settimana fa. Compito del personale di polizia penitenziaria al quale era stato affidato è di mettere in atto tutte le procedure di tutela possibili per il detenuto. Da un lato, Frapporti non avrebbe dovuto avere nulla con cui poter farsi del male. Dall’altro, le guardie carcerarie, rimaste choccate dall’accaduto, assicurano che il detenuto pareva tranquillo al momento di entrare in cella. Meno di due ore dopo, era morto. La posizione della famiglia, che chiede alla Procura - attraverso un legale di fiducia - di fare chiarezza sui fatti, dal momento dell’arresto alla tragica fine dell’artigiano di Isera, ha trovato conforto nell’apertura di un fascicolo - per ora contro ignoti - da parte del sostituto procuratore De Angelis. Nei prossimi giorni è atteso il referto dell’autopsia, ma è chiaro che dalle risultanze cliniche non ci si attendono novità di rilievo. E’ infatti fuori di dubbio che l’artigiano si sia tolta la vita in maniera volontaria. Qualcosa in più la potrebbero forse dire i verbali di arresto e sequestro, di cui i legali della famiglia attendono copia. Dalle prime risultanze, pare acclarato che l’artigiano non avesse con sé hashish quando è stato fermato in via Campagnole da dei carabinieri in borghese, tutto quanto è stato sequestrato è stato trovato dopo, nell’abitazione del muratore, nel corso della perquisizione domiciliare disposta immediatamente. Stando a quando affermano i carabinieri, lo stupefacente l’avrebbe consegnato lui stesso ai militari durante la perquisizione. Ciò che deve essere passato per la testa in quei terribili istanti da solo in una cella a un uomo che nei suoi cinquant’anni aveva mantenuto la fedina penale immacolata, si può solo immaginare. La perdita della dignità, della reputazione, può essere un colpo tremendo per chi non ha mai conosciuto l’umiliazione del carcere. Dalla quale forse meritava maggiore tutela.

Tratto dal Trentino del 28 luglio 2009

Suicidio in carcere, parte l'indagine

Il sostituto procuratore Fabrizio De Angelis ha aperto un’inchiesta sulla morte di Stefano Frapporti, il muratore cinquantenne che si è tolto la vita in carcere poche ore dopo l’arresto. Sulla salma è già stata eseguita l’autopsia. Nel frattempo, la famiglia dello scomparso ha deciso di affidarsi a uno studio legale per fare chiarezza su alcuni aspetti della vicenda che paiono quanto meno nebulosi. Mentre nel merito dell’arresto non c’è nulla da eccepire - al muratore era stato sequestrato oltre un etto di hashish diviso in due pezzi, c’erano gli estremi di legge per portarlo in carcere -, molte perplessità solleva la modalità del suicidio, avvenuto in una delle tre celle del reparto Osservazione. L’artigiano non si è impiccato con le lenzuola in dotazione al carcere, bensì con la stringa dei pantaloni della tuta ginnica che indossava. Un dettaglio che fa la differenza, poichè nessuno ha pensato di privare il detenuto dello strumento con il quale poteva danneggiarsi. Entrato attorno alle 10.30 alla casa circondariale di via Prati, è stato trovato morto due ore più tardi. Altro elemento di perplessità lo suscita il fatto che il muratore non abbia telefonato a nessuno, quella sera. Né all’avvocato, né alla famiglia. Secondo una versione riferita ai legali, gli sarebbe stato negato il permesso di telefonare dal carcere, benchè ne avesse fatta richiesta. La famiglia è del parere che se Stefano avesse potuto parlare con qualcuno in quel momento di massima pressione emotiva, forse il giorno dopo non si sarebbe pianta la tragedia. Il triste epilogo ha suscitato molta impressione in città, dove l’artigiano era conosciuto e apprezzato. «Magari a casa, dopo dieci ore di lavoro, si sarà fatto qualche spinello. Ma era una brava persona, altro che delinquente. Un gran lavoratore, bravo e serio. Assurdo che sia finito così» concordano amici e conoscenti.

Tratto dal Trentino del 28 luglio 2009

domenica 26 luglio 2009

Lo arrestano, si impicca in cella

Aveva 50 anni e faceva l’artigiano. Stefano Frapporti era un muratore provetto e stimato, malgrado la sorte disgraziata gli avesse riservato una menomazione ad una mano, massacrata anni fa da un terribile incidente sul lavoro. Con la legge non aveva mai avuto particolari problemi, fino a martedì scorso, quando una pattuglia di carabinieri lo ha fermato mentre percorreva in bici viale Vittoria contestandogli una manovra errata. Perquisito, i militari gli avevano trovato dell’hashish e per andare a fondo della questione lo avevano sottoposto a perquisizione domiciliare. Dai verbali dei carabinieri emerge che a Frapporti sarebbe stato sequestrato oltre un etto di stupefacente. Da qua, l’arresto. Ineccepibile, sotto il profilo del codice di procedura penale: la soglia per sostenere l’uso personale è superata di gran lunga, per la legge. L’artigiano viene dunque accompagnato in carcere. Al mattino viene ritrovato morto dalle guardie, impiccato con le lenzuola in una delle tre celle del reparto Osservazione, dove vengono alloggiati i detenuti in arrivo per dare loro un impatto meno duro con la realtà del carcere. «Sono cose che non dovrebbero mai succedere - commenta Giampaolo Mastrogiuseppe, delegato della Cgil funzione pubblica -. La sera in cui è arrivato in via Prati, il detenuto pareva tranquillo, ha anche scherzato con le guardie. Nulla lasciava presagire ciò che avrebbe fatto. E’ una storia molto triste, ma era difficile da evitare». E’ sempre complicato, per non dire impossibile, capire quali pensieri si agitano nella testa di un’altra persona, anche conoscendola bene. Richiede conoscenza profonda, e anche una dote naturale di empatia. Figurarsi quando si tratta di estranei. Ma non è questo il compito della polizia penitenziaria. «Purtroppo, anche per le note carenze di personale, la vigilanza di notte è affidata a pochissime persone, e fare il giro delle celle significa controllarle ogni ora e mezza, facendo in fretta. Poi, per chi non ha mai vissuto l’esperienza del carcere, l’impatto è duro. La prima notte è molto triste, può essere terribile. E la guardia carceraria non è uno psicologo, non le si può nemmeno chiedere una professionalità di questo genere. Per questo, prima di entrare in cella, ogni detenuto dovrebbe avere un incontro con lo psicologo. E’ previsto dalla legge, ma nell’arco delle 24-48 ore. Troppo tardi, perché lo choc è immediato per chi è stato appena arrestato. Chi soffre in modo intollerabile deve almeno poterlo dire a qualcuno che possa valutarne la capacità di sostenere questo momento difficile». I suicidi in carcere, purtroppo, fanno parte di una triste consuetudine per chi vive “dentro”. «Sono decine all’anno, per la realtà trentina, e centinaia i casi in Italia - spiega Massimiliano Rosa, segretario provinciale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria -. Ma sono molti anche i casi in cui i nostri colleghi salvano il detenuto da morte certa, strappandolo in extremis al tentativo di togliersi la vita in cella. Di questo non si dice mai nulla, forse fa poco notizia, ma le cose stanno così». Chi ha seri propositi suicidi si guarda bene dal manifestarli. Tanto meno li confiderebbe alla guardia. Il caso di Frapporti fa riflettere, perchè non si tratta di un “abituale”, come vengono indicati in gergo i delinquenti veri, ma di un artigiano che ha sempre lavorato, conducendo un esistenza piuttosto semplice, fatta di lavoro e di serate al bar con gli amici di sempre. Amici e conoscenti lo tratteggiano come un’ottima persona, taciturno ma di cuore. Chi lo ha conosciuto sul lavoro ne ha apprezzato l’abilità, la precisione e la serietà. La tenacia con cui aveva ripreso a lavorare dopo il grave infortunio gli aveva dato soddisfazione e si era costruito una solida professionalità, riconosciuta da tutto l’ambiente dell’edilizia. Nessuno lo crede un “pusher”, uno che vende droga. Semmai, dicono, un semplice consumatore. Ma la Procura è di diverso avviso, alla luce del quantitativo di hashish squestrato. Forse non sarà stata la grave accusa di spaccio a fargli prendere una decisione così tremenda e definitiva, nella notte tra martedì e mercoledì. Forse altre inquietudini si addensavano nella sua mente, benchè nessuno dei suoi amici se ne fosse accorto. Ma è un’evidenza che quell’atroce scelta sia maturata nell’ambito di una cella della casa circondariale di via Prati, senza che nessuno riuscisse ad accorgersene in tempo per salvargli la vita.

Tratto dal Trentino del 26 luglio 2009