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Non si può morire così...
Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni. Il 21 luglio 2009 andava in giro in bicicletta quando è stato fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella.

Questo blog nasce dalla volontà della famiglia di ottenere chiarezza su quel che è successo a Stefano e per chiedere che venga fatta giustizia.



ASSEMBLEA PUBBLICA TUTTI I MARTEDI' DALLE 20.00 ALLA SEDE DELL'ASSOCIAZIONE "STEFANO FRAPPORTI" IN VIA CAMPAGNOLE 22.

Un fatto poco normale

L’assemblea dei familiari, amici e solidali di Stefano Frapporti

Da otto mesi a Rovereto (Trento) sta accadendo. Persone diverse tra loro – per idee, per esperienze, per percorsi di vita – s’incontrano ogni settimana, accomunati da qualcosa di semplice e apparentemente poco normale. Una volontà, un sentimento, un impegno che stanno tutti in queste parole: “Non si può morire così”.
In fondo la morte di Stefano Frapporti, ucciso da un arresto il 21 luglio 2009, a Rovereto, avrebbe potuto cadere nel silenzio e nell’indifferenza generali, come un tragico lutto privato. Purtroppo le ingiustizie, i soprusi, le sopraffazioni sono fatti normali, tremendamente normali. E normale è rassegnarsi. “Cosa posso farci io?”, ci si chiede, e in questa domanda spesso la coscienza, sola di fronte alla normalità del mondo così com’è, rinuncia a se stessa.
Invece, a partire dal 3 agosto scorso, familiari, amici e solidali di Stefano s’incontrano con tenacia e anche con piacere. Hanno saputo fare breccia nel silenzio e nell’indifferenza, spingendo una città ad interrogarsi. Autofinanziandosi completamente, hanno organizzato volantinaggi, presìdi, cortei, banchetti, mercatini, concerti, conferenze, fiaccolate, rappresentazioni teatrali, blocchi del traffico. Hanno preparato striscioni da mettere ai balconi, manifesti, cartoline, magliette, spillette con un’altra frase che è un monito collettivo e un impegno personale: “Io non scordo Stefano Frapporti”. Ma soprattutto hanno discusso con centinaia di persone e tenuto aperto, a chiunque voglia condividerlo, uno spazio di confronto settimanale.
Per molti lo slancio è venuto e viene dall’affetto e dal rapporto diretto, intimo con Stefano. Per altri Stefano era uno sconosciuto – uno sconosciuto per cui battersi. Ed è proprio questo incontro, forse, che ha aperto una nuova consapevolezza e una diversa comunanza: la morte di Stefano è un problema di tutti. E allora gli interrogativi, le discussioni ci hanno portato a riflettere e a far riflettere sul carcere, sulla violenza poliziesca, sulla discriminazione dei diversi e dei più deboli, sulle leggi che, in nome della sicurezza, soffocano sempre di più le nostre libertà.

Sono proprio questa consapevolezza e questa comunanza che ci permettono di tener duro e stringere nuovi rapporti.
Quando abbiamo visto le immagini di Stefano Cucchi, il suo corpo martoriato e tumefatto, non si è trattato per noi di una notizia raccapricciante al pari di tante altre. Abbiamo sentito più vivo il doloro dei suoi familiari e dei suoi amici, e più forte la rabbia contro una simile violenza vigliacca e protetta.
E allora Aldo Bianzino, Riccardo Rasman, Marcello Lonzi, Federico Aldrovandi, Manuel Eliantonio, Sorin Calin e tutti gli altri che hanno subìto la violenza delle forze dell’ordine e la sopraffazione delle istituzioni hanno smesso di essere solo dei nomi.
Per questo, il 16 gennaio scorso, siamo andati in pullman alla manifestazione nazionale contro gli omicidi di Stato organizzata a Livorno da Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi.
Per questo, dopo averla messa in scena due volte a Rovereto di fronte a una sala gremita, abbiamo portato e porteremo la rappresentazione teatrale “Come è morto Stefano Frapporti?” in diverse altre città: Trento, Bologna, Marghera, Roma, Verona...
Non passa mese senza che giungano nuove notizie di pestaggi in caserma o in questura. Non passa mese senza che giungano nuove notizie di archiviazione di queste violenze.
“Cosa credete di ottenere?”, ci ha chiesto più di una persona. Già, cosa crediamo. Come ha scritto Fabio alla fine della narrazione teatrale, abbiamo smesso di credere e allo stesso tempo crediamo. Abbiamo smesso di credere alle verità ufficiali e crediamo ostinatamente, contro ogni evidenza, in una società giusta.
Insomma, siamo diventati poco normali. Perché è normale, vergognosamente normale, il ripetersi dell’orrore. Come è normale, vergognosamente normale, che lo Stato assolva sempre se stesso. Il procuratore De Angelis, titolare dell’inchiesta sulla morte di Stefano Frapporti, ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del caso. Lacune, contraddizioni, menzogne: per il pm è tutto regolare. Di più. Secondo il magistrato, sono i familiari di Stefano che, attraverso i loro avvocati, avrebbero fatto delle illazioni “al limite della calunnia”. Proprio così. A ciascuno il suo ruolo, sembra suggerire il dottor De Angelis. E il ruolo dei familiari dovrebbe essere uno solo: piangere in silenzio. A tutti gli altri invece è concesso di rassegnarsi.
E invece questo non sta accadendo, questo non accadrà. Perché una coscienza risvegliata non si addormenta più... Perché in questo “bel paese” si archivia tutto, persino il corpo massacrato di Stefano Cucchi.
L’archiviazione del “caso Frapporti” non ha fermato la nostra mobilitazione. Anzi. Come risposta immediata alla vergognosa decisione del tribunale, abbiamo bloccato il traffico a singhiozzo per due pomeriggi, con striscioni e volantini. Così come siamo andati a ringraziare i politici roveretani, in occasione di un consiglio comunale, per il loro silenzio in tutta questa vicenda.
Siamo ancora qualche centinaio a scendere in piazza ogni ventuno del mese, a riaffermare “Io non scordo Stefano Frapporti” e “Io non archivio”.
Non solo non molliamo, ma da tempo riflettiamo su come dare al ricordo di Stefano una prospettiva più ampia.
Ora il passo che vorremmo compiere è quello di rendere concreto uno slogan che ripetiamo fin dall’inizio, che ripetono tanti altri familiari, amici e solidali in altre parti d’Italia e non solo: “Così non si deve morire mai più”. Ciò a cui pensiamo è una rete di autodifesa contro le violenze e gli abusi polizieschi. Nella pratica, un numero di telefono da contattare in caso di necessità, per non essere soli in certe situazioni o anche soltanto per avere quelle informazioni legali minime per sapere cosa fare in caso di fermo, perquisizione, arresto. Non un semplice contatto telefonico a cui affidarsi, ma una rete di persone disposte a mobilitarsi, a ritrovarsi in strada o sotto una caserma. In una realtà piccola come Rovereto, una rete di solidarietà di questo tipo farebbe senz’altro sentire le forze dell’ordine più “osservate” e quindi tutti noi un po’ più sicuri.
A breve presenteremo pubblicamente questa iniziativa durante una conferenza nella quale l’avvocato della famiglia Frapporti spiegherà nei dettagli l’intera vicenda dell’inchiesta e dell’archiviazione.

Anche questo impegno sarà un modo per ricordare Stefano, Marcello, Aldo, Riccardo, Federico, Manuel, Giovanni, Sorin e... tutti gli altri che a casa non sono più tornati.
Qui non si archivia niente.
Noi continuiamo.

Rovereto, 13 aprile 2010

Non si può morire così
parenti, amici e solidali di Stefano
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frapportistefano.blogspot.com